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La Corea di Huntington infatti è una malattia rara ma più diffusa di quanto si immagini. Come segnalato dall’Osservatorio malattie rare, in Europa e negli Stati Uniti la frequenza è stimata in 10-14 casi per 100.000 abitanti. In Italia si aggira intorno agli 11 casi per 100.000 persone. Quindi solo nel nostro Paese circa 6.000-6.500 persone hanno a che fare con questa malattia neurodegenerativa. Ma trattandosi di una malattia genetica dominante, le persone a rischio di ereditare la mutazione salgono a 30.000-40.000.

Cos’è l’Huntington

L’Huntington è una malattia rara, genetica, neurodegenerativa, caratterizzata da un’ereditarietà molto forte. Il che vuol dire che chi ha un genitore affetto dalla malattia ha il 50% di possibilità di svilupparla in età adulta e questo comporta che, spesso, in famiglia più persone possono essere affette dalla malattia.

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Sebbene l’età di insorgenza sia molto variabile – dato che la malattia si può manifestare a 2 come a 90 anni – in genere i primi sintomi appaiono in media tra i 30 e i 50 anni.

Il principale sintomo iniziale, motivo per cui è detta ipercinetica, è la comparsa di movimenti continui e scoordinati, ma più in generale si tratta di sintomi motori, cognitivi, funzionali e comportamentali. L’Huntington infatti comporta una perdita progressiva di cellule nervose e la conseguente perdita delle capacità cognitive e motorie. A tal punto che nelle fasi avanzate della malattia la persona perde la capacità di parola e le funzioni motorie diventando in tutto e per tutto dipendente dalle cure degli altri.

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Il silenziamento genico

Al momento non ci sono farmaci in grado di prevenire, bloccare o rallentare la progressione della malattia, ma solo di attenuare i sintomi.

L’identificazione però del gene responsabile ha permesso di capire meglio i meccanismi della patologia e ha dato il via a molti studi al fine di poter sviluppare farmaci mirati per fermare o almeno rallentarne il decorso.

Uno degli approcci più innovativi per il trattamento dell’Huntington è considerato il silenziamento genico: strategia che mira a spegnere il gene mutato, per impedire che si formi la proteina mutata e insorga la malattia.

Ancora in fase di sperimentazione, si sta cercando di capire e testare se i cosiddetti farmaci silenzianti siano effettivamente in grado di rallentare la progressione della patologia. Se ne discuterà a Padova, mercoledì 15 maggio nel corso del convegno «Il viaggio del gene: dalla scoperta al suo silenziamento» a cui parteciperà anche Jim Gusella, tra i gnetisti a cui si deve la scoperta del gene Huntington.

Il viaggio del gene Huntington

Il viaggio del gene Huntington è in effetti il tema della V edizione degli Huntington’s Days che vedranno approdare (e srotolorare) nelle città coinvolte una riproduzione lunga 70 metri del gene mutato, all’interno della quale si ripetono tante triplette CAG (citosina, adenosina, guanina), mostrando la mutazione oltre il valore soglia di 36.

Questo perché all’interno del gene Huntington si ripete più volte la sequenza di triplette CAG. Fino a 35 volte la ripetizione di CAG non è tossica, invece se il numero di triplette ripetute supera la soglia di 36 insorge la malattia.

Il ruolo dei pazienti

Recentemente si è svolta a Palm Springs la conferenza annuale organizzata dalla CHDI Foundation sulla malattia di Huntington. Oltre ad aver fatto il punto sulle sfide da affrontare per mettere a punto nuove prospettive terapeutiche, nell’incontro oltreoceano è stata sottolineata l’importanza del ruolo dei pazienti e la necessità di coinvolgerli in maniera attiva, perché la loro collaborazione è determinante per la ricerca e la comprensione della malattia.

Al fine di diventare parte attiva della ricerca, Barbara D’Alessio della Fondazione LIRH (Lega Italiana Ricerca Huntington e Malattie Correlate - numero verde LIRH 800.388.330) segnala lo studio ENROLL-HD: «il più grande studio di ricerca osservazionale al mondo. Chi partecipa mette a disposizione dei ricercatori dati e informazioni sulla propria patologia e sulla propria salute, oltre che campioni biologici di vario tipo».

«È davvero importante – puntualizza allora – donare il proprio tempo e partecipare ai programmi di ricerca anche di semplice osservazione clinica e biologica, perché questi rappresentano proprio la base per focalizzare meglio l’approccio terapeutico nelle sperimentazioni terapeutiche future».

@simona_regina

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