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Diagnosi tardive, scarsa comunicazione al malato e ai suoi famigliari, pochi servizi: queste le criticità che emergono dal rapporto «European Carers’ Report 2018» di Alzheimer Europe, organizzazione che riunisce 40 Associazioni Alzheimer europee. Il documento, presentato al Parlamento Europeo, contiene i dati relativi alle esperienza di chi assiste i pazienti con demenza in cinque paesi, tra cui l’Italia (insieme a Scozia, Olanda, Repubblica Ceca e Finlandia), per un totale di 1.409 familiari (339 gli italiani).

DIAGNOSI TARDIVA E PER 1 SU 3 SBAGLIATA

Tra i principali ostacoli alla diagnosi precoce, i familiari segnalano un ritardo significativo nell’individuazione della diagnosi stessa: in media passano 2,1 anni per ricevere la diagnosi corretta, cifra che migliora leggermente in Italia con 1,6 anni. A questo dato si aggiunge il 25% dei malati a cui viene diagnosticata inizialmente un’altra condizione medica, percentuale che sale per gli italiani al 31,9%. Una volta poi stabilita la diagnosi corretta, si è registrato tra i malati un 53% di demenza lieve, 36% moderata, 4% grave; quasi la metà dei familiari (47% nel complesso e ben il 52,1% in Italia) credono che il tasso di diagnosi sarebbe risultato migliore se valutato più tempestivamente.

TRISTE PRIMATO ITALIANO

Nel nostro paese, le fonti principali di informazioni sono, tra gli specialisti, il neurologo (nel 33% dei casi; mentre in Finlandia è il geriatra, nel 30% dei casi) e la rete (nel 64% dei casi; mentre lo è nel 72% dei casi in Repubblica ceca); le associazioni in quasi un caso su due, mentre in Olanda sono fonte di informazioni e notizie nel 77% dei casi.

Nel nostro paese, poi, spicca la mancanza di comunicazione da parte dei medici. Se il 59,3% dei carer italiani dichiara che la persona non è stata informata della malattia, la percentuale scende al 23,2% in Repubblica Ceca, all’8,2% nei Paesi Bassi, al 4,4% in Scozia e all’1,1% in Finlandia.

«Una diagnosi tempestiva insieme al coinvolgimento del malato nelle decisioni che lo riguardano e all’ascolto delle sue esigenze sono fondamentali per combattere l’esclusione sociale e lo stigma, per assicurare dignità e migliorare la qualità di vita dell’intera famiglia coinvolta» ha commentato Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia.

E DOPO LA DIAGNOSI IL DRAMMA DELL’ASSISTENZA

Infine, il supporto post-diagnostico rimane un problema che accomuna tutti gli Stati: nel complesso la metà dei familiari richiede informazioni su come affrontare e convivere con la demenza e sui servizi disponibili sul territorio. In Italia si registra la maggiore insoddisfazione sulle informazioni ricevute. E solo il 10% riceve servizi di assistenza e di supporto nei mesi successivi alla diagnosi, percentuale che sale al 60% in Olanda e al 42% in Scoz.

«L’impatto della demenza sulla famiglia del malato è pesante sia sul piano economico sia su quello emotivo», precisa Mario Possenti, segretario generale della Federazione Alzheimer Italia, presente a Bruxelles.

«Ogni giorno le centinaia di richieste di sostegno che arrivano alla nostra help line Pronto Alzheimer ci confermano che i familiari vivono ancora troppo nell’isolamento e nella poca informazione. Consapevoli che sia necessario attivare interventi e strumenti efficaci, continuiamo quindi a sviluppare il progetto nazionale delle Comunità Amiche delle Persone con Demenza che possono far sentire comprese, rispettate, sostenute tutte le persone che vivono con la demenza».

CHI ASSISTE I MALATI? IN 4 CASI SU 5 SI TRATTA DI DONNE

Dalla ricerca emerge un preciso profilo di chi assiste il malato: in Italia nella maggior parte dei casi (64,8%) si tratta del figlio/a della persona malata (solo nei Paesi Passi sono di più i mariti/mogli con un 53,7%) e di sesso femminile (80,3%). Anche negli altri quattro Stati europei considerati le donne carer corrispondono alla maggioranza (82,8%).

In Italia anche le persone con demenza - che nel complesso si stimano in 1.241.000 - sono nella maggior parte dei casi donne (73,9%), tra i 75 e gli 84 anni (49,1%), e quasi la metà di loro vivono in casa con i loro familiari (46,4%) o con altri carer (28,7%), mentre sono pochi coloro che alloggiano presso residenze assistenziali (12,1%).

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