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Scostante, introverso, intrattabile. In una parola: scorbutico. Così diventava, infatti, chi era affetto dallo scorbuto, una malattia - oggi praticamente dimenticata - che si sviluppò soprattutto fra Cinquecento e Ottocento. Fu il flagello dei marinai di tutto il mondo e ne provocò la morte in misura molto maggiore rispetto ai naufragi, o ai combattimenti navali.

L’influenza negativa che produceva sul morale era il più lieve dei sintomi: pallore, occhi infossati, dimagrimento, emorragie, debolezza muscolare, ma soprattutto il ritirarsi delle gengive e la caduta dei denti erano le manifestazioni più drammatiche di una progressiva e inesorabile debilitazione. La morte era causata spesso dal sopraggiungere di altri morbi più rapidamente letali, come la polmonite che prosperava negli ambienti freddi umidi e malsani delle navi dell’epoca.

Il premio Nobel conferito, nel 1937, allo scienziato ungherese Albert Szent-Györgyi

Anniversari

Durante l’anno appena trascorso, ricorrevano i 270 anni dal primo studio-controllo della storia che identificò nel succo di arance e lime, la terapia migliore per la prevenzione e la cura dello scorbuto alla cui origine vi è la carenza di vitamina C che, come si sa, è contenuta in grande concentrazione negli agrumi.

Ancora cifre tonde: lo studio del composto organico, detto più propriamente acido L-ascorbico culminò 80 anni fa, con il premio Nobel conferito, nel 1937, allo scienziato ungherese Albert Szent-Györgyi artefice della sua scoperta.

Il medico militare scozzese James Woodall Lind

Rimedi empirici

Lo scorbuto era noto già agli antichi Egizi ed anche Ippocrate, il grande medico greco, nel V sec. a.C. vi aveva fatto riferimento. Tuttavia, la malattia non venne troppo considerata finché, dal Rinascimento in poi, con il progresso della navigazione, cominciò ad essere sempre più una triste protagonista della vita di mare. Basti pensare che, durante la circumnavigazione del globo compiuta da Ferdinando Magellano tra il 1519 e il 1522, ben l’80% del suo equipaggio ne morì. Oltre alle tratte sempre più lunghe, va ricordato che, in quel periodo, le condizioni del vitto dei marinai erano peggiorate drasticamente per il sempre più frequente utilizzo di alimenti secchi. Tra i primi rimedi empirici, parzialmente efficaci, vi furono quelli americani che prevedevano la somministrazione agli equipaggi di tè al cedro. Gli olandesi, invece, si erano quasi immunizzati dallo scorbuto caricando a bordo barili di crauti che, pur non essendo verdure fresche, ponevano al riparo i marinai dai rischi dell’avitaminosi.

La nave inglese HMS Salisbury

Sei su dodici

A fare luce definitivamente sugli alimenti che potevano prevenire o curare la malattia, ci fu lo studio del medico militare scozzese James Woodall Lind che, nel 1747, compì un esperimento con metodo moderno: selezionò dodici malati di scorbuto e solo alla metà di essi, somministrò regolarmente arance e lime. Presto si accorse del rapido miglioramento della salute di questi ultimi: la cura si era trovata, ma ci vollero, tuttavia, ancora sei anni prima che Lind potesse pubblicare i risultati del suo studio intitolato «Treatise on the Scurvy».

Sarebbero, poi, passati altri quaranta anni prima che la marina di Sua Maestà si decidesse a imporre, nella dieta dei marinai, una dose di succo di agrumi, debellando definitivamente la malattia. Infatti, ancora nel 1776, il navigatore James Cook partiva per il suo terzo viaggio, che lo avrebbe condotto a scoprire l’arcipelago hawaiano, caricando a bordo soprattutto malto, cavoli e broccoli (che, pure contengono la vitamina) ma non agrumi.

La scoperta di Lind, non era stata accettata dai vertici della marina inglese che ritenevano bastassero l’igiene, l’esercizio fisico e il morale alto dell’equipaggio per prevenire casi di scorbuto. Ai primi del Novecento si era ancora del tutto fuori strada con la credenza che il morbo fosse provocato da cibo in scatola contaminato.

Si scoprono le vitamine

Fin dall’Antichità ci si era sempre curati con il cibo, ma solo negli ultimi anni dell’Ottocento si cominciò a intuire che gli alimenti contenessero fattori accessori - oltre a grassi, carboidrati e proteine - di grande importanza per la salute. Nel 1910, il medico giapponese Umetaro Suzuki riuscì a estrarre il primo complesso di vitamine dalla crusca di riso. La vitamina C fu però scoperta definitivamente solo negli Anni 30. L’ungherese Albert Szent-Györgyi nel 1928 aveva già isolato un «acido hexuronico» e cercava di capire se si trattasse della stessa sostanza che l’americano Charles Glenn King, da parte sua, aveva chiamato «acido ascorbico».

Collegamento tra loro fu lo scienziato Joseph L. Svirbely grazie al quale, nel 1932, entrambi gli scienziati addivennero a un’unica constatazione: l’acido ascorbico, la vitamina C e l’acido hexuronico erano lo stesso composto. Nel 1934, il biologo inglese Sir Walter Norman Haworth riuscirà a sintetizzarlo chimicamente per la prima volta.

Gli esperimenti a bordo del medico militare scozzese James Woodall Lind

Un integratore di successo

La vitamina C è, oggi, sempre più apprezzata, tanto che alcune fra le diete più recenti la pongono ai primi posti nella cosiddetta «integrazione». Oltre al suo potere antiossidante, l’acido ascorbico offre un grande rinforzo al sistema immunitario, utile soprattutto per prevenire e mitigare i sintomi delle malattie invernali. Fondamentale per la formazione del collagene, è ottimo per la salute delle ossa, dei muscoli e dell’apparato cardiovascolare.

Aiuta l’assorbimento del ferro, regola i livelli di istamina e protegge dalla tossicità di alcuni minerali. L’uomo è, insieme ad alcune specie di scimmia, l’unico animale che non è in grado di produrre autonomamente la vitamina C. Questo perché, alle sue origini, la nostra specie viveva in ambienti tropicali, dove i vegetali ricchi di acido ascorbico non mancavano.

Va ricordato che la frutta di oggi però, non ne è così ricca quanto quella che consumavano i nostri progenitori: la lunga conservazione, i trasporti, il congelamento, l’impoverirsi dei terreni e lo sfruttamento sempre più intensivo delle colture fanno sì che molti nutrizionisti consiglino l’integrazione di vitamina C, meglio se nelle versioni a rilascio graduale. Trattandosi di un composto idrosolubile, non presenta rischi di ipervitaminosi, dato che la sostanza in eventuale eccesso viene smaltita con le urine.

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