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Fra poco più di un mese la legge italiana sull’aborto compirà 38 anni. Ma, nonostante i suoi quasi 4 decenni di vita, l’interruzione volontaria di gravidanza è ancora una sorta di percorso a ostacoli nel nostro paese. Come se la scelta di abortire non fosse già abbastanza tormentata per una donna, molte si trovano anche a dover affrontare difficoltà per accedere a un servizio di cui hanno diritto per legge. A confermarlo è stato qualche giorno fa il Consiglio d’Europa, che si è pronunciato su un ricorso presentato dalla Cgil.

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Secondo l’organismo europeo, l’Italia discrimina il personale medico che non ha optato per l’obiezione di coscienza, sostenendo che questi sanitari sono vittime di “diversi tipi di svantaggi lavorativi diretti e indiretti”.

Si stima che gli obiettori di coscienza siano in media circa il 70 per cento del totale, con picchi che superano il 90 per cento in alcune regioni. E’ vero che l’obiezione di coscienza è un diritto per i medici, ma questo rischia di sopprimere altri diritti di pari dignità, come il diritto alla salute fisica e psichica della donna. E quindi il diritto di scegliere di interrompere una gravidanza. Per legge 194/78 la donna infatti ha il diritto di scegliere di non portare avanti una gravidanza, pur nel rispetto di alcuni paletti. E la pratica medica prevede diverse procedure in base alle esigenze delle pazienti.

L’ITER PER ACCEDERE ALL’ABORTO

Per legge una donna può effettuare un’interruzione volontaria di gravidanza in una struttura pubblica entro i primi 90 giorni e se è un aborto terapeutico entro il quarto o quinto mese.

Per accedere alle procedure per l’interruzione volontaria di gravidanza la donna deve presentare un certificato che accerta lo stato di gravidanza e un documento che attesta la volontà di interromperla.

Se si è minorenni bisogna essere accompagnati da un genitore, oppure nel caso in cui non ci siano i genitori o non li si voglia informare, è l’assistente sociale che si rivolgerà al giudice dei minori, per far sì che quest’ultimo rilasci un certificato per l’autorizzazione all’aborto.

Dal momento in cui si presentano i documenti richiesti bisogna rimanere in attesa per sette giorni, stabiliti come il tempo necessario a escludere ogni possibilità di ripensamento. Dopo questa settimana, se la donna non ha cambiato idea, può recarsi presso una struttura idonea e ottenere l’interruzione attraverso due modalità: l’aborto farmacologico e l’aborto strumentale o chirurgico. Se poi il dottore sul certificato pone la dicitura «urgente», si può anche non aspettare i 7 giorni, ma andare direttamente ad abortire.

L’ABORTO FARMACOLOGICO

L’aborto farmacologico, possibile in Italia dal 10 dicembre del 2009, avviene tramite la somministrazione di farmaci. E’ possibile accedere a questa procedura entro i primi 49 giorni dal concepimento, quindi solo in uno stadio molto precoce della gravidanza.

Questo perché nel periodo successivo il rischio di non riuscita e di complicazioni potrebbe essere superiore rispetto all’attesa. La paziente che sceglie di affrontare la via dell’interruzione farmacologica deve essere obbligatoriamente ricoverata per la durata del trattamento. Dopo avere effettuato alcuni accertamenti preliminari, la paziente assume per bocca una prima pillola. Si tratta del mifepristone, più conosciuto come RU486. Questo farmaco blocca lo sviluppo embrionale e induce il distacco del feto dall’utero, determinando la fine della gravidanza.

Nell’arco di alcune ore viene poi somministrato un secondo farmaco, contenente prostaglandine, che fa contrarre l’utero e consente il suo svuotamento in modo autonomo, senza bisogno di un accesso chirurgico. L’interruzione farmacologica non è indicata in caso di allergie o ipersensibilità della paziente verso una o più componenti, e i suoi effetti collaterali possono manifestarsi sottoforma di tachicardia momentanea, eritema cutaneo, qualche disturbo intestinale.

Vi è poi il rischio di emorragia locale, a causa dell’azione del farmaco che provoca lo sfaldamento dell’endometrio, lo strato più interno della mucosa uterina. E’ infatti per questo che la paziente viene tenuta in osservazione per diverse ore in seguito al trattamento. Altro limite di questa pratica è il raro caso in cui non venga completata del tutto l’espulsione del feto. In questo caso si rende necessario intervenire chirurgicamente.

L’ABORTO CHIRURGICO

La paziente può scegliere la cosiddetta interruzione di gravidanza strumentale in alternativa a quella farmacologica durante i primi 49 giorni di gravidanza.

Al 50esimo giorno, invece, diventa l’unica opzione. Per questa procedura è prevista l’ospedalizzazione per uno o massimo due giorni.

L’intervento consiste nella rimozione del prodotto di concepimento contenuto all’interno dell’utero per via chirurgica. La procedura avviene in pochi minuti e in anestesia. La tecnica più diffusa per praticarlo è l’isterosuzione, che consiste nell’uso di una cannula che, una volta inserita nell’utero e collegata a una pompa a vuoto, aspira l’embrione/feto e l’endometrio.

Un altro metodo, che viene ormai praticato molto poco, è quello della cosiddetta dilatazione e revisione: la dilatazione si effettua sul collo dell’utero con l’aiuto di una sottilissima pinza e la revisione (anche detta raschiamento) coincide con la rimozione del materiale. Le principali controindicazioni sono quelle legate alla necessità di operare in anestesia generale. Inoltre c’è il rischio di emorragie, di infezioni e di errori nella pratica chirurgica. Sono tutte complicanze comuni a tutti gli altri tipi interventi.

LE ECCEZIONI DOPO I 90 GIORNI DAL CONCEPIMENTO

Ci sono casi in cui è possibile abortire anche dopo il 90esimo giorno di gravidanza. E’ infatti possibile accede a questa procedura quando la gravidanza o il parto comportano un grave pericolo per la vita della donna e nel caso subentrino complicazioni che possano costituire un grave pericolo per la sua salute fisica o psichica. E’ quindi un aborto terapeutico per tutelare la salute della donna e non per impedire la nascita di un bambino per via del suo stato di salute. Per questo non basta solo ila richiesta della paziente, ma è necessario l’intervento di uno specialista che attesti le condizioni.

Viene praticato di norma entro la 22esima e la 24esima settimana di gestazione, una soglia strettamente legata al livello di sviluppo del feto e alla sua possibilità di sopravvivere autonomamente. Si effettua con la somministrazione di farmaci capaci di indurre la dilatazione della cervice e le contrazioni, provocando quello che in termini medici è definito travaglio abortivo. Il feto viene prelevato, mentre la donna è preferibilmente anestetizzata anche per evitare traumi psicologici.

Nella stragrande maggioranza dei casi il feto non sopravvive. Ma nella remota possibilità che lo faccia, il medico ha l’obbligo di rianimarlo e fare tutto il possibile per tenerlo in vita. Una pratica, questa, molto discussa e che comunque non porta alla sopravvivenza duratura del feto.

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