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La sua rilevanza è duplice: tanto per una diagnosi precoce quanto per la definizione di una strategia terapeutica appropriata. Il test che individua la mutazione di uno o di entrambi i geni Brca (1 e 2) può salvare la vita a una donna.

Le stime dicono che il 5-10 per cento dei tumori al seno e pressoché il doppio di quelli ovarici siano determinati da una predisposizione ereditaria: determinata non soltanto dai geni Brca, che tra quelli noti rappresentano però la quota più significativa. Eppure in Italia c’è ancora troppa difformità nell’offerta. Soltanto a sei donne su dieci colpite da un carcinoma ovarico viene proposta l’indagine genetica. Mentre appena in un caso su tre questo avviene alla diagnosi, che è il momento più opportuno per procedere alla ricerca delle mutazioni per due ragioni: la prima punta alla scelta della terapia più efficace, la seconda all’approfondimento dell’indagine genetica anche nelle parenti più strette, in modo da serrare eventualmente i controlli o procedere all’intervento di rimozione dei seni e delle ovaie, già effettuato da Angelina Jolie.

L’ESITO DELL’INDAGINE

A scattare la prima fotografia sul mondo del test Brca applicato al tumore ovarico in Italia è stato l’Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda). L’indagine - condotta da «Elma Research» su 212 centri con reparto di oncologia: cinquanta pazienti arruolate, 31 familiari e 15 oncologi - aveva come obiettivo l’analisi della conoscenza del test, del vissuto delle donne già ammalatesi e le modalità con cui avevano avuto accesso all’indagine. Lo spaccato che è emerso non è risultato confortante. Nonostante le raccomandazioni delle linee guida delle società scientifiche, infatti, è ancora troppo basso il numero di donne che hanno accesso alla ricerca delle mutazioni dei due geni.

Forti sono inoltre le disparità a livello regionale, come dimostrano i dati conclusivi del dossier . Tra quelle prese in esame, Piemonte e Toscana hanno evidenziato la propensione maggiore a consigliare il test: col coinvolgimento del 72 per cento delle donne a cui è stato diagnosticato un tumore dell’ovaio. Lontane dagli standard adeguati - anche rispetto a tre regioni del Sud: Campania, Puglia e Sicilia si sono dimostrate più celeri pure nel fornire i risultati - sono state invece la Lombardia (43) e il Veneto (40 per cento).

Tutti gli ospedali coinvolti hanno dichiarato di mettere in atto le linee guida delle società scientifiche che stabiliscono i criteri per proporre il test. Ma nella realtà due strutture su tre applicano regole più restrittive che escludono le pazienti con oltre 75 anni o con malattia troppo avanzata. Conclusioni che hanno portato Onda - con la consulenza di un gruppo di esperti multidisciplinari delle Società Italiana di Genetica Umana (Sigu), dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom), dell’Alleanza Contro il Tumore Ovarico (ACTO Onlus), della onlus aBRCAdaBRA, dell’Associazione Senonetwork Italia Onlus e dell’Associazione Nazionale Italiana Senologi Chirurghi (Anisc) - a redigere un documento istituzionale per chiedere alle istituzioni la reale applicazione delle indicazioni della comunità scientifica in maniera omogenea, sul territorio nazionale.

Eppure, come ricorda Domenica Lorusso, dirigente medico della struttura complessa di ginecologia oncologica dell’istituto Nazionale dei Tumori di Milano, «i tumori legati alla mutazione esordiscono infatti più frequentemente come tumori al quarto stadio, ma hanno una prognosi migliore rispetto ai comuni tumori di analogo grado».

Quanto affermato permette di definire un percorso terapeutico specifico. Le pazienti con tumori legati a una mutazione rispondono meglio ad alcuni farmaci (platino, doxorubicina liposomiale pegilata e trabectedina). Ma per il futuro si nutrono speranze di utilizzare i farmaci Parp-inibitori in prima linea e non soltanto come accade adesso: ovvero a partire dal momento della recidiva.

A ciò occorre aggiungere l’opportunità di riconoscere in tempo utile quelle che potrebbero divenire le pazienti di domani. «Avere la mutazione non significa essere certe di ammalarsi, ma consapevoli di avere una maggiore predisposizione a sviluppare di alcuni tipi di tumore - prosegue l’esperta -. In questo modo ci si può attrezzare: sia in termini di sorveglianza sia di strategie di riduzione del rischio».

Il test viene proposto nell’ambito di un percorso di consulenza genetica e necessità della compilazione del consenso informato. A carico della paziente - gli esperti raccomandano il test a tutte le donne con tumore dell’ovaio non mucinoso e non borderline, indipendentemente dall’età e dalla storia familiare - c’è soltanto il ticket: con costi che differiscono però da una regione all’altra. Una volta eseguita, su un prelievo di sangue o su un campione di tessuto tumorale, il tempo di attesa per avere i risultati dell’indagine genetica è variabile, come dimostra peraltro l’indagine.

Twitter @fabioditodaro

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