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Sono state poche parole dette con sicurezza, piombate nella mia vita come un fulmine a ciel sereno un pomeriggio di ottobre: «Ma questo è un linfoma!». Al medico è bastato visitarmi, poi ha continuato a parlare, ma io non ho più sentito niente. Guardavo il lago dalla finestra alle sue spalle, il cielo azzurro e le barche, ma l’unica cosa che riuscivo a pensare era «Chissà per quanto ancora li vedrò». Mi sono immaginata pelata, poi morta. Fortunatamente solo una delle due cose è accaduta.

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«Tumore» è una gran brutta parola, spaventa molto e spesso tra le persone rimane ancora un argomento tabù, ma non è sempre sinonimo di “morte”.

Racconto la mia storia non per dare lezioni di vita, ma perché spero possa essere d’aiuto a chi si trova a dover affrontare questa malattia e a chi ancora la considera qualcosa di innominabile.

L’ottimismo fin da subito, ma non per tutti

Il giorno della scoperta è stato il 7 ottobre 2015, avevo 17 anni e da qualche mese alcune ghiandole ingrossate ai lati del collo mi avevano spinto a effettuare degli accertamenti. Quel giorno, bombardata da termine scientifici nessuno dei quali ero ancora in grado di comprendere,ho iniziato a piangere in silenzio. Ho cercato di ricacciare indietro quelle lacrime ma il medico se n’è accorto e, con la stessa sicurezza con la quale aveva fatto una diagnosi veloce ma certa, mi ha detto di smetterla: «Tu guarirai», ha sentenziato.

Gli ho creduto e da quel momento non ho più avuto paura.

Non ero arrabbiata e ho capito che piangersi addosso sarebbe stato inutile. L’unica soluzione era affrontare la chemioterapia, forse anche la radio: non mi spaventavano. Potevo guarire, mi era stato detto. Dovevo guarire, tutto il resto non importava. Per molti affetti che mi erano accanto in quel momento però l’atteggiamento non è stato lo stesso.

Il tumore non mi ha allontanato dalle persone a cui tengo. La loro paura sì

La mia famiglia, le mie migliori amiche e tante persone a cui voglio bene sono state la mia forza: non ho mai voluto essere la causa della tristezza altrui, ma so che non è stato facile per loro e non potrò mai ringraziarli abbastanza. I più inaspettati si sono fatti avanti dimostrandomi di esserci nel momento del bisogno. Ma mentre io rifiutavo di sentirmi una “malata”, c’è stato anche chi non è riuscito a essere altrettanto fiducioso.

Avere la certezza di guarire da un tumore non sempre è sufficiente per coloro che stanno attorno al paziente: la paura annebbia la loro mente, incasellata negli stereotipi e nelle convenzioni sociali per le quali spesso nemmeno si riesce a chiamare questo «brutto male» con il proprio nome. Molti di cui mi fidavo ciecamente sono rimasti bloccati, completamente spaesati senza sapere come muoversi o come fuggire da quella gabbia del leone. Scappare davanti alle difficoltà, tacere pur di non correre il rischio di dire «qualcosa di sbagliato», allontanarsi con l’illusione di soffrire meno. Alcuni hanno scelto le vie più facili, ma non è detto che siano state le migliori. Le delusioni non sono mancate, ma sono servite a farmi conoscere le persone per quello che sono veramente, a capire su chi posso davvero fare affidamento.

L’esperienza della chemioterapia

Il mio linfoma di Hodgkin ha fatto in tempo a raggiungere solo tre sedi, vari punti del collo e il mediastino. Fortunatamente gli altri organi erano immacolati. L’équipe di medici e infermieri delle Molinette di Torino, dove sono stata curata presso il Centro Oncologico Ematologico Subalpino, è stata superiore alle aspettative che siamo soliti avere nei confronti della sanità italiana: tutti eccezionali.

A soli tre giorni dalla PET che aveva localizzato la massa tumorale io iniziavo la chemioterapia. Era il 19 ottobre.

Due ore di attesa per gli esiti degli esami del sangue e quasi sei attaccata alle flebo sono diventate la routine del lunedì, ogni due settimane. Ho fatto la terapia per sei volte (ovvero tre cicli) e sapevo che sarebbe stato doloroso, però non pensavo così tanto. Non voglio spaventare, ma mentire non avrebbe senso. Con la stessa schiettezza con cui scrivo di essere stata male dirò anche che i miei sentimenti navigavano per lo più nella direzione opposta alla tristezza e allo sconforto.

La sofferenza fisica: non volevo fare altro che dormire

Mi sentivo stanca, l’attenzione vacillava. Ci sono stati giorni in cui mi mancava la forza per fare qualsiasi cosa che non fosse dormire sul divano o mangiare in continuazione per placare la nausea. Talvolta i dolori erano inimmaginabili. Ci vuole tanta pazienza e non mi piaceva sentirmi un peso; ogni tanto inutile, spesso impotente, messa in un angolo ad aspettare e sperare di guarire presto. Ero più debole che mai, ma allo stesso tempo mi sentivo più forte di sempre. Il mio corpo intanto stava cambiando.

I cambiamenti che di giorno in giorno vedevo nel mio corpo

La biopsia mi ha regalato una cicatrice alla base del collo, seppur piccola e che sparirà con il tempo. Le chemio un catetere nel braccio che non è stato facile accettare. Lentamente mi sono gonfiata, la pelle si è macchiata e una mattina i capelli hanno iniziato a cadere a ciocche. Li ho rasati immediatamente senza problemi, alla sera non ne avrei più avuti molti e non avevo intenzione di trascorrere ogni giorno vedendomi diventare sempre più spelacchiata.

Non ho mai voluto una parrucca quindi mi sono detta: «Ma perché non posso andare in giro calva?».

E così ho fatto, senza dare peso agli sguardi e ai commenti altrui. I miei «impegni» erano altri: stavo combattendo una guerra che prende corpo e mente, prosciuga tutte le energie, ma riempie, arricchisce spiritualmente facendo crescere in un modo che mai avrei potuto immaginare e insegnando cose che non si possono imparare tra i banchi di scuola.

Le mie notti nella sofferenza

Nelle notti in cui raggiungevo l’apice della sofferenza fisica il corpo condizionava i miei pensieri portandoli nell’angolo più oscuro della mente, sull’onda dei luoghi comuni che dipingono il cancro come l’inizio della fine. Non volevo morire, ma in quei momenti avevo paura che sarebbe accaduto. Nonostante la fede, pensare che tutto finisse così presto e in quel modo, urlando dal dolore, implorando e chiedendo a Dio perché un essere umano debba soffrire tanto non mi piaceva affatto. Che cosa avevo fatto? Ero stata così cattiva da meritarlo? Apparentemente era una punizione, ma con l’avanzare delle settimane ho realizzato che non era così. Ho analizzato la situazione mettendo aspetti negativi e positivi sul piatto della bilancia: i primi erano numerosi, ma i secondi valevano molto di più.

Non tutti i mali vengono per nuocere

Il tumore com’è toccato a me in realtà è un dono. Diciamo un’arma a doppio taglio. Una possibilità che la Vita mi ha dato per crescere e per amarla sempre di più, una sfida e un’occasione per conoscere me stessa. Certo, esistono mille altri modi per farlo, ma siamo padroni del nostro destino solo in parte, ci sono cose che non possiamo controllare, quindi prendo ciò che arriva e cerco di accoglierlo al meglio.

Quell’inspiegabile senso di colpa per avercela fatta rispetto ad altre persone

Nell’ultimo anno ho perso molti cari in modo tragico, i sensi di colpa per essere ancora viva, dunque più fortunata di loro, non sono mancati e reagire è stato psicologicamente mille volte più duro che affrontare la patologia. E’ difficile accettare piani che non si è in grado di comprendere, ma la Vita mi ha dato una seconda possibilità che non ho il diritto né la volontà di sprecare.

La telefonata che mi ha cambiato la vita

Sono fiera di me, con la malattia ho acquisito molta consapevolezza e la gratitudine per essere guarita riempie ogni mio istante. Ho atteso con ansia la chiamata dall’ospedale che è arrivata il 19 gennaio 2016: è stato il giorno più bello della mia esistenza. Era martedì e non so descrivere cos’ho provato. Ho pianto, tanto, di gioia.

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