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Le parole d’ordine sono alta specializzazione e multidisciplinarietà. Solo così si potrà sconfiggere il carcinoma ovarico, tra le prime cinque cause di morte per tumore nelle donne di età compresa tra i 50 e i 69 anni. Anche perché i primi passi sono decisivi per la prognosi e le conseguenze di un errore diagnostico o terapeutico iniziale ricadono nella storia clinica della paziente, che «andrebbe orientata verso centri superspecialistici che dispongono di tutte le competenze necessarie» è l’appello di Angelo Maggioni, direttore della chirurgia oncologica dello IEO, in occasione del congresso internazionale per il decennale dell’Ovarian Cancer Center.

Inoltre, come spiega Nicoletta Colombo, direttore del programma di ginecologia dello Ieo, «essere seguite in questi centri significa avere maggiori opportunità di venir reclutate negli studi clinici con farmaci sperimentali, come l’immunoterapia e i parp-inibitori».

Già, perché afferire a centri di alta specializzazione che rispettano i requisiti minimi di volume e di qualità in un ambiente interdisciplinare significa avere, oltre che accesso alle conoscenze più avanzate del momento, anche maggiori possibilità di farcela. Lo mostrano i buoni esempi oltre confine. Come la Svezia, una popolazione che è un decimo dell’Italia, dove l’accentramento di alcuni servizi in strutture hub ha portato ottimi risultati.

«Dopo un lavoro durato degli anni, ora solo sei ospedali universitari possono trattare il carcinoma all’ovaio» spiega Pernilla Dahm-Kähler dell’Università di Göteborg «I dati oggi indicano un significativo miglioramento della sopravvivenza: a 3 anni, quella delle pazienti in stadio 3-4 sottoposte a chirurgia primaria è passata dal 44% al 65% e in tutte le donne con stadio 3-4 indipendentemente dal trattamento primario dal 41% al 60%».

Nel nostro paese, il tumore ovarico colpisce 5200 donne l’anno, in otto casi su dieci viene diagnosticato in fase avanzata e la sopravvivenza non è migliorata molto negli ultimi anni. «Il tumore ovarico è un sistema difficile in cui si sommano diverse complessità: chirurgica, oncologica, medica e genetica – dice la professoressa Colombo - La terapia di prima linea è diventata complicatissima e oggi è finalmente un settore in movimento: un oncologo che non sia profondamente radicato nella scienza di questa patologia non sa neppure cosa offrire alla paziente».

Il ruolo della chirurgia rimane dominante: lo specialista deve possedere competenze tecniche specifiche e conoscere la malattia, per una sua resezione completa. «Nel 70-80% delle volte, la malattia riguarda anche l’addome superiore: intervenire richiede enormi capacità chirurgiche» spiega Karl Podratz, della divisione di ginecologia oncologica della Mayo Clinic di Rochester.

«Tra le variabili che impattano la sopravvivenza, la malattia residua dopo l’intervento chirurgico è straordinariamente importante: la sopravvivenza di lungo periodo è inversamente proporzionale al tumore lasciato in loco. Le pazienti sono spesso operate da individui con insufficienti capacità: dovrebbero invece poter sapere il livello di training del loro chirurgo, il volume di interventi eseguiti e il loro esito». Tutti dati che, prosegue Podratz, «devono servire a certificare i centri abilitati a praticare questa chirurgia così complessa e decisiva per la vita della donna».

Insomma, le evidenze ci sono. Ma, in Italia, siamo ancora lontani: le donne vengono curate vicino a casa, in strutture spesso inadeguate in termini di numeri e di figure professionali dedicate. Questa è l’esortazione dei più importanti ginecologi oncologi riuniti a Milano: «Urge una riorganizzazione e l’istituzione di Ovarian Unit, come già esistono le Breast Unit». Per il bene delle donne.