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Nei bambini, in molti casi, è già realtà. Negli adulti potrebbe diventarlo presto: agevolando la vita dei pazienti e rendendo più semplice il lavoro degli specialisti. Non è utopia, oggi, parlare della possibilità di diagnosticare la celiachia attraverso un semplice esame del sangue, che potrebbe sostituire la gastroduodenoscopia con la biopsia dei villi duodenali oggi in uso in chi scopre la malattia quand’è già grande.

L’ipotesi, divenuta concreta nei più piccoli, emerge da uno studio pubblicato sulla rivista «Gastroenterology», le cui conclusioni hanno riacceso il dibattito tra gli esperti.

Celiachia: per la diagnosi basterà un esame del sangue?

L’attenzione è rivolta agli adulti che, al momento della diagnosi, presentano già una positività agli anticorpi (anticorpi anti-transglutaminasi IgA e anticorpi anti-endomisio) che segnalano la malattia. Partendo da queste premesse, il lavoro dei ricercatori della divisione di gastroenterologia ed epatologia della Mayo Clinic ha aggiunto nuove indicazioni. Gli autori sono andati a testare l’utilità di un complesso proteico (tTG-DGP) come marcatore diagnostico di celiachia e come marcatore di guarigione della mucosa intestinale in corso di dieta senza glutine.

Il test ha dimostrato una sensibilità del 99 per cento e una specificità del cento per cento (non è emerso alcun falso positivo) nel distinguere i celiaci dalle persone sane. L’utilizzo di questo test come marker di guarigione della mucosa intestinale in corso di dieta senza glutine - unica terapia valida per la celiachia - ha invece presentato una sensibilità dell’84 per cento e specificità del 95 per cento nel predire la guarigione della mucosa. Afferma Edoardo Savarino, gastroenterologo dell’azienda ospedaliero-universitaria di Padova e membro della Società Italiana di Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva: «Questo studio ci proietta verso l’impiego di un nuovo biomarcatore utile sia ai fini diagnostici che di monitoraggio della malattia celiaca, che, in soggetti selezionati, potrebbe evitare l’esecuzione della biopsia duodenale sia per la diagnosi che per il monitoraggio dei pazienti con celiachia».

Nei bambini (in molti casi) è già realtà

Detto ciò, l’utilizzo nella pratica clinica di questo nuovo sistema necessita di ulteriori studi che valutino l’effettivo guadagno in termini diagnostici rispetto all’uso dei soli anticorpi: anche in termini di costi. L’ipotesi però ricalca quanto già fatto con i bambini celiaci: cinquantamila soltanto in Italia. Anche per loro la diagnosi è avvenuta attraverso la conferma della gastroscopia, utile per prelevare i villi intestinali da analizzare in laboratorio. Ma nelle più recenti indicazioni fornite dal Ministero della Salute, risalenti ormai al 2015, si esclude l’obbligo di sottoporre i piccoli pazienti alla biopsia se si riscontrano la predisposizione genetica alla malattia e se gli anticorpi sono di molto (almeno dieci volte) superiori ai valori soglia.

Un approccio più rapido, sicuro e meno invasivo, che ha contribuito a rendere meno traumatico l’iter per i bambini. Quanto ai controlli, il primo deve avvenire a un anno dalla diagnosi. Successivamente, ogni due anni, salvo complicanze, ponendo attenzione all’età adolescenziale, durante la quale l’aderenza alla dieta senza glutine è spesso ridotta.

Un’opportunità per aumentare le diagnosi?

Evitando di ricorrere a un’indagine invasiva, secondo gli esperti, si potrebbe portare a galla quella quota «sommersa» di celiaci che non sono consapevoli di esserlo poiché rinunciano a sottoporsi alla gastroscopia. «Nel nostro Paese - sottolinea Giuseppe Di Fabio, presidente dell’Associazione Italiana Celiachia - si stima che, a fronte dei circa duecentomila pazienti diagnosticati a oggi, ci siano quattrocentomila persone che non sanno ancora di essere celiache».

Twitter @fabioditodaro