Chi deve convivere con problemi intestinali cronici, sa quanto sia difficile condurre una esistenza serena, con disturbi che accentuano la fatica fisica e mentale, con disagi ed imbarazzi che condizionano l’umore e possono perfino compromettere la buona riuscita degli intenti. Come un gatto che si morde la coda, essendo l’intestino ormai scientificamente riconosciuto come «secondo cervello» dell’essere umano, il malessere gastrointestinale piega la mente ed essa, impegnata a far fronte ad uno stress costante, a sua volta influenza in negativo il buon funzionamento di quella parte dell’organismo. Diarrea, stipsi, gonfiore, tensione addominale, sanguinamento, stimolo illusorio e improduttivo, fitte, spasmi. Una varietà di sintomi mostruosi e sovente ingestibili.

Il calvario di chi ha problemi intestinali, lo comprende soltanto chi ne soffre. Si passa dalla rassegnazione agli slanci interventisti, tentando varie strade. La variazione delle abitudini alimentari, l’assunzione di integratori o farmaci, i percorsi psicoterapeutici per provare a combattere il problema alla sua ipotetica origine. La frustrazione è forte quando i risultati sperati, non si presentano o sono insufficienti a considerare se stessi come persone completamente sane.

Da molti anni un sistema innovativo offre qualche speranza in più a coloro che vivono il disagio dei disturbi gastrointestinali. Si tratta del trapianto di flora batterica. Un vero e proprio intervento, con tanto di ricerca di donatori compatibili e rischio di eventuali rigetti. Un metodo in costante evoluzione e che in Italia ha come suo principale punto di riferimento la Fondazione «Policlinico Agostino Gemelli» di Roma nelle figure dei Prof. Antonio Gasbarrini e Giovanni Cammarota del reparto di Medicina Interna e Gastroenterologia e dei i Prof. Maurizio Sanguinetti e Luca Masucci dell’Istituto di Microbiologia.

CHE COSA SI INTENDE PER «MICROBIOTA»

«Il microbiota umano - spiega il Prof. Maurizio Sanguinetti, Direttore dell’Istituto di Microbiologia del Policlinico A. Gemelli - è l’insieme di tutti i microrganismi che vivono fuori e dentro il corpo. Il microbiota intestinale umano, alcune volte utilizzato come sinonimo “microbioma” pur essendoci una piccola differenza tecnica, è un ecosistema complesso composto da circa 10000miliardi di batteri e altri microrganismi, tra cui lieviti e virus. La presenza di questo insieme di microrganismi non è nuova. Infatti, fino a pochi anni fa era chiamato “flora microbica” intestinale e già da molto tempo sono conosciute le proprietà benefiche apportate dai batteri all’organismo ospite, come ad esempio la produzione di vitamine o di competizione con batteri patogeni. Tuttavia, più recentemente con le nuove metodiche di rilevazione molecolare, Next Generation Sequencing, si è cominciato a migliorare le conoscenze di questi nostri “coinquilini”.

Esiste un potenziale ideale di equilibrio tra i vari generi batterici che ad oggi viene definito «eubiosi». Tuttavia è difficile definire tale stato, in quanto il microbiota intestinale è un sistema complesso e dinamico che cambia e si evolve durante la nostra vita in base a fattori dietetici, ambientali, patologici, farmacologici e all'età. In generale, uno stato di eubiosi è caratterizzato da una forte presenza di Firmicutes e Bacteroidetes e da una bassa percentuale di Proteobacteria, che, invece, aumentano durante gli stati infiammatori. Un altro aspetto da sottolineare è la ben nota interazione tra il microbiota intestinale e il sistema immunitario: non dimentichiamoci che l’intestino è sede fondamentale di strutture e reazioni immunitarie».

TRAPIANTO DI MICROBIOTA: I PIONIERI ITALIANI

Luca Masucci, professore Aggregato Istituto di Microbiologia Policlinico «A.Gemelli», responsabile del settore Parassitologia, Infezioni gastrointestinali e FMT-Lab, racconta degli enormi passi avanti compiuti dalla scienza in questo specifico campo ed entra nel dettaglio della pratica del trapianto di flora batterica utilizzabile per determinate patologie.

«Ultimamente è stata utilizzata una modulazione del microbiota intestinale in un’infezione ospedaliera intestinale dovuta ad un batterio: Clostridium difficile. Questo approccio alternativo si chiama “Trapianto di microbiota intestinale o fecale”. In realtà si tratta di una metodica risalente addirittura al 400, utilizzata già nella medicina cinese per trattare problemi intestinali. E’ anche pratica abituale dei beduini del deserto assumere sterco di cammello per curare dissenterie di varia natura.

Attualmente – spiega ancora Masucci – il trapianto fecale è effettuato presso la fondazione Policlinico A. Gemelli – IRCCS che in Italia rappresenta un centro pionieristico per il trattamento delle infezioni ospedaliere da C. difficile. Tale attività nasce nel 2013 grazie alla stretta collaborazione tra Gastroenterologi e Microbiologi. I risultati ottenuti presso questo centro sono eclatanti: i pazienti, affetti da C. difficile e trattati con FMT, hanno un tasso di sopravvivenza complessiva di circa un terzo maggiore rispetto ai pazienti trattati con antibiotici (92% vs 61%)».

Infezione da Clostridium difficile: di cosa si tratta

«L’infezione da C.difficile – chiarisce il dottor Masucci – è una patologia che insorge in pazienti ospedalizzati, in genere più di 65 anni di età, che hanno una lunga degenza e terapie antibiotiche associate per trattare altre patologie infettive. Il grado di malattia è variabile da diarrea a colite grave (colite psudomembranosa) fino a perforazione del colon e decesso. In questi pazienti il C.difficile può acquisire resistenza agli antibiotici e condurre all’aggravamento della situazione clinica. Inoltre il microbiota intestinale risulta totalmente alterato proprio dall’utilizzo degli antibiotici. Ricordiamo che l’antibiotico ha la sua azione “velenosa” anche sui batteri “buoni”».

La flora intestinale

«A questo punto non essendoci farmaci disponibili, si deve ricostituire la flora microbica intestinale, che per le sue proprietà benefiche compete con la proliferazione di C.difficile. Questo è quello che si ottiene con il trapianto fecale che consiste nell’utilizzare un microbiota intestinale ottenuto da un donatore sano per essere introdotto per via endoscopica nel paziente malato. I risultati ottenuti mostrano che nel 94% dei riceventi si è avuta la risoluzione dell’infezione, con nessuna reazione avversa significativa. I pazienti trattati con FMT hanno avuto un rischio di sepsi circa 4 volte inferiore sempre rispetto ai pazienti trattati con antibiotici (5% vs 22%)».

Passo per passo: ecco in che cosa consiste il trapianto di microbiota

Spiega il dottor Luca Masucci: «Il trapianto fecale (Fecal Microbiota Transplantation – FMT) consiste in una soluzione di batteri, che deve essere assolutamente preparata in un laboratorio di microbiologia quindi controllato e certificato livello di sicurezza 2, che vengono ricavati da feci di donatori sani. Questa soluzione viene infusa per via endoscopica nel paziente ricevente al fine di riequilibrare il microbiota carente. Il trapianto di microbiota rappresenta un esempio di collaborazione multispecialistica. All’interno del Policlinico “A.Gemelli” è nata una attiva collaborazione in primis tra gastroenterologi e microbiologi che risulta fondamentale per lo svolgimento di tale procedura. Ricordiamo che in questo ospedale sono state istituite due attività, una clinica e una laboratoristica, dedicate solamente al trapianto fecale».

Per quali patologie potrebbe essere utilizzabile o consigliabile il trapianto?

«Potenzialmente tutte quelle patologie in cui è dimostrata esserci una correlazione con il microbiota intestinale. È stato ad esempio dimostrato in topi che c’è un efficacia del trapianto fecale in soggetti obesi che tendono a dimagrire se ricevono una soluzione batterica ottenuta da topi magri, analoga efficacia in topi diabetici. Le malattie dismetaboliche sono molto correlate al microbiota intestinale anche perché i batteri intestinali necessitano di substrati nutritivi diversi: è quindi possibile che una “fame” di carboidrati sia anche legata ai batteri che lo richiedano: è quello che si chiama asse di comunicazione intestino-cervello. Dopo il trapianto fecale, il ricevente nel tempo riacquisisce la propria flora microbica iniziale, quindi i topi ritornano ad essere obesi o diabetici.

Altra cosa da precisare è che, attualmente, si ipotizza che il trattamento con trapianto fecale nelle patologie multifattoriali non pretenda di guarirle ma di renderle meno aggressive o migliorare le condizioni di vita in alcune di esse.

Negli ultimi 5 anni, migliaia di ricerche internazionali sono state rivolte allo studio del microbiota e alle sue potenziali correlazioni con molte malattie, gastrointestinali ed extra-gastrointestinali. Quindi sono state valutate possibili correlazioni con malattie infiammatorie dell’intestino, malattie autoimmuni, malattie neurodegenerative come Sclerosi Multipla o Parkinson, malattie comportamentali come l’autismo, malattie metaboliche come obesità o diabete, malattie cardio –vascolari come aterosclerosi e quindi ischemie. L’ipotesi più ovvia di un trattamento adiuvante non può che essere la rimoludazione del microbiota verso un equilibrio».

Microbiota e malattie neurodegenerative, che tipo di relazione c’è?

«Presso la Fondazione “Policlinico A.Gemelli” – IRCCS, grazie a uno studio elaborato con la D.ssa Jessica Mandrioli neurologa presso Nuovo Ospedale Civile S. Agostino Estense di Modena, il Prof. Amedeo Amedei Immunologo del Università degli Studi di Firenze, il Prof. Giovanni Cammarota ed il sottoscritto, sta per cominciare uno studio proprio sulla SLA, al fine di verificare l’azione del trapianto fecale sul sistema immunitario dei pazienti affetti da questa patologia. In realtà siamo alla preistoria di questo approccio. Il resto sarà tutto da verificare con trial clinici. Allo stato attuale non può essere considerato la risoluzione di tutte le malattie. Inoltre il problema fondamentale è che non conosciamo eventuali effetti collaterali che possano insorgere a distanza di tempo. Sta funzionando benissimo in pazienti critici affetti da infezione ricorrente da C.difficile, ma che in alcuni casi sono a rischio di aggravio della patologia e quindi di decesso. In questo caso è ovvio che ci sia un corrispondenza positiva».

Quali potrebbero essere questi effetti collaterali?

«Allo stato attuale ovviamente ci sono solo quelli immediati che sono abbastanza irrilevanti come ad esempio nausea, vomito, febbre e mancata ritenzione della soluzione. Nel futuro potrebbe essere che vengano individuati dei microrganismi, ad oggi non noti, che possano predisporre o essere causa di patologie dopo essere stati infusi nel ricevente. Ovviamente si tratta di ipotesi. Per questo si deve valutare su quali patologie ci possa essere il vero potenziale positivo di FMT».

Che controlli vengono fatti sul donatore?

«Questa è una fase delicatissima che richiede l’intervento dei microbiologi. Una volta individuato il donatore da parte del gastroenterologo che effettua uno screening valutando la storia clinica, il paziente viene sottoposto ad esami ematochimici e sierologici, che sono sovrapponibili a quelli effettuati su donatori d’organo. Inoltre vengono effettuati esami parassitologici, batteriologici e virologici sulle feci, al fine di garantire l’assenza di patogeni trasmissibili».

Come viene preparata la soluzione?

«Il giorno della donazione, il donatore deve portare tutte le feci evacuate la mattina, raccolte in un contenitore sterile. Il personale del laboratorio di microbiologia procede alla manipolazione, operando in condizioni di biosicurezza livello 2, per evitare la contaminazione di microrganismi patogeni e avendo cura di usare il quantitativo adeguato. Contemporaneamente si procede ad effettuare un ultimo esame rapido per la ricerca di patogeni intestinali. Tutta la procedura deve essere effettuata in tempi ristretti: 6 ore dalla evacuazione fino all’infusione della soluzione».

Non sembra una procedura così semplice?

«Infatti richiede un’esperienza rodata che vede in azione diverse figure: gastroenterologi, anestesisti e personale infermieristico e microbiologi in primis, ma non dobbiamo dimenticare che è necessaria la partecipazione e la collaborazione di tutte quelle aree cliniche dove i pazienti affetti da infezione da C.difficile sono ricoverati».

Spesso si sente parlare di tipizzazione del microbiota. Di cosa si tratta?

«Si tratta di utilizzare le nuove tecniche di sequenziamento genico batterico al fine di individuare tutti i microrganismi presenti nel campione biologico analizzato, nella fattispecie le feci. È come se noi fotografassimo dall’alto uno stadio dove si sta effettuando una convention. Difficilmente potrò dare un nome a ciascuno dei presenti, ma potrò dire quanti ce ne sono e individuare i settori in cui sono divisi. E’ difficile arrivare ad identificare con certezza tutte le specie batteriche e in particolare non può darci una diagnosi di presenza di patogeni batterici. Per questo tipo di individuazione si utilizzano altre metodiche di microbiologia».

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