Dosi sempre inferiori di farmaco, ma per un periodo di tempo più lungo. È questo lo schema da seguire per superare il rabdomiosarcoma, uno dei tumori più rari (ma aggressivo) che può colpire bambini e adolescenti. Se finora i pazienti sono stati trattati con nove cicli di chemioterapia, che seguivano l’intervento chirurgico e la radioterapia, quello che si è scoperto è che portare avanti una terapia «di mantenimento» per (ulteriori) sei mesi contribuisce a guarire un numero più alto di piccoli pazienti.

Rabdomiosarcoma: un tumore dei primi anni di vita

Il rabdomiosarcoma è un tumore dei muscoli molto raro che colpisce principalmente i bambini. Si contano all’incirca 350 casi all’anno in Europa. La malattia si manifesta mediamente attorno ai 6 anni, ma picchi di incidenza si registrano anche tra i 15 e i 19 anni. Se la malattia viene riconosciuta in tempo, le probabilità di guarigione sono buone: comprese tra il 70 e 80 per cento. Ciò vuol dire che oltre tre pazienti su quattro possono guarire con le terapie attualmente in uso. Ma esistono dei sottogruppi di piccoli malati la cui prognosi è ancora molto incerta e per cui è necessario trovare nuove strategie di cura. Una risposta, adesso, può derivare da questo cambio di approccio. Il primo, dopo trent’anni, nel trattamento del rabdomiosarcoma.

Cambia la terapia del rabdomiosarcoma

La terapia orale a basse dosi con i farmaci vinorelbina e ciclofosfamide guarisce un numero maggiore di pazienti, rispetto al protocollo classico. Il dato emerge da una ricerca pubblicata sulla rivista «The Lancet Oncology» (https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S1470204519306175), condotta coinvolgendo quasi 400 pazienti con meno di 21 anni ammalatisi tra il 2006 e il 2016. Dallo studio è emerso che nei pazienti trattati con la terapia di «mantenimento», la sopravvivenza dopo cinque anni era superiore all’86 per cento (con una probabilità inferiore di recidiva della malattia). Mentre nel gruppo curato in maniera tradizionale, il risultato si fermava poco al di sotto del 74 per cento. Pochi gli effetti tossici determinati dall’aggiunta dei due farmaci per ulteriori sei mesi. «Questo risultato cambia il paradigma del trattamento del rabdomiosarcoma - afferma Andrea Ferrari, oncologo pediatra dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e coordinatore dello studio -. D’ora in avanti, la terapia a basse dosi dopo il trattamento già in uso da diversi decenni deve rappresentare lo standard di cura in tutti i centri».

La soluzione da due «vecchi» farmaci

A questo risultato si è giunti grazie a una collaborazione internazionale tra 102 ospedali di 14 nazioni diverse. Presenti, per l’Italia, anche altri tre ricercatori: Gianluca De Salvo e Gianni Bisogno (Istituto Oncologico Veneto), oltre a Michela Casanova (Istituto Nazionale dei Tumori di Milano). «Lo studio dimostra come si possano ottenere grandi risultati utilizzando in maniera innovativa molecole disponibili ormai da decenni - racconta la specialista, che si occupa dello sviluppo di nuovi farmaci per i tumori pediatrici -. Piccole dosi di farmaci somministrate in modo continuativo sono meglio tollerate dai pazienti e possono attivare meccanismi di azione diversi, agendo nel caso del rabdomiosarcoma sullo sviluppo di nuovi vasi sanguigni nel tessuto tumorale».

Twitter @fabioditodaro