L’epidemia di obesità che contraddistingue la nostra fase storica è da ascrivere (maggiormente) alle abitudini e alle scelte alimentari di questo periodo o alla genetica? La domanda è al centro del confronto tra gli scienziati da diversi decenni. Ma le conclusioni, ribadite in un ultimo studio norvegese pubblicato sul «British Medical Journal», sono abbastanza chiare. È colpa soprattutto dell’ambiente in cui viviamo se, dal 1975, i tassi di obesità a livello mondiale sono triplicati.

Conta più l'ambiente. A questa conclusione, in ultima istanza, i ricercatori norvegesi sono giunti dopo aver esaminato 119mila pazienti (13-80 anni) arruolati in un progetto di ricerca avviato nel 1963 e concluso 45 anni più tardi (2008). Potendo contare sulle conoscenze di genetica applicabili all’aumento ponderale, dopo aver suddiviso uomini e donne in cinque gruppi a seconda della maggiore o minore predisposizione genetica a sviluppare un eccesso di peso, gli epidemiologi hanno posto in relazione l’eventuale predisposizione scritta nel Dna con le variazioni dell’indice di massa corporea (indicatore dello stato ponderale di un individuo).

Così hanno potuto osservare come nel loro Paese, questo indicatore ha iniziato a crescere dalla metà degli anni ’80: sebbene già tra i nati dopo il 1970 si osservasse un indice (noto anche come BMI) in crescita rispetto a coloro venuti al mondo in precedenza. E ciò indipendentemente dal grado di predisposizione genetica. Sono dati che confermano quello che gli esperti, anche in Italia, affermano da tempo. Viviamo in un ambiente «obesogeno», in cui la disponibilità di alimenti meno salubri (abbondanti in zuccheri, sale, grassi e poveri di fibre e vitamine) è cresciuta di pari passo con la nostra propensione a muoverci. La disponibilità di mezzi di trasporto ci ha portato a ridurre i tragitti percorsi a piedi e la tendenza ad assumere comportamenti poco «amici» della salute (fumo e alcol in primis) non è calata.

L'obesità in Italia

In Italia ci sono oltre 5.4 milioni di adulti obesi e oltre 23 milioni in sovrappeso. Eppure, secondo Giuseppe Fatati, direttore della struttura di diabetologia, dietologia e nutrizione clinica dell'ospedale di Terni e presidente dell’«Italian Obesity Network», «il nostro Paese non ha ancora un piano strategico per affrontare l’obesità. La maggior parte degli interventi politici adottati finora si sono sempre focalizzati sulla dieta, sull’esercizio e sulla prevenzione.

I farmaci anti-obesità non vengono rimborsati dal sistema sanitario nazionale e il ricorso alla chirurgia bariatrica è disponibile per gli adulti con BMI superiore a 40, oppure superiore a 35, ma solo se affetti da una o più malattie legate al sovrappeso e quando gli sforzi precedenti di perdita di peso non sono riusciti».

La maggioranza delle persone obese che si rivolge a un medico lo fa solo nel momento in cui accusa i sintomi di malattie correlate (diabete, ictus, ipertensione o tumori). Un meccanismo che, secondo Fatati, «non è più ammissibile in un sistema sanitario che non riconosce ancora l’obesità come una malattia altamente invalidante e che rappresenta un importante fattore di rischio per lo sviluppo di altre malattie non trasmissibili».

Twitter @fabioditodaro