Quella provocata da Clostridium difficile è una delle infezioni più temute all’interno degli ospedali, a causa dell’elevata resistenza agli antibiotici che porta il problema a ripresentarsi di frequente nei pazienti già colpiti. Il batterio è il principale responsabile dei casi di diarrea acquisiti durante la degenza ed è causa di un problema particolarmente sentito nella popolazione anziana. Da qui, vista la loro vulnerabilità, l’importanza degli studi mirati a comprendere cosa favorisca la diffusione dell’agente infettivo nelle corsie, per poi provare a passare al contrattacco. Cercando di fare luce sui meccanismi che spianano la strada al microrganismo, si è arrivati a una scoperta tanto preziosa quanto allarmante. Clostridium difficile, nel corso degli anni, si è evoluto in due specie differenti. Una di queste, ha sviluppato una maggiore capacità adattativa che ne sta favorendo la diffusione all’interno degli ospedali. La notizia giunge da uno studio pubblicato sulla rivista «Nature Genetics» da un gruppo di ricercatori del Wellcome Sanger Institute di Cambridge e della scuola di igiene e medicina tropicale dell’Università di Londra.

Batteri più resistenti se la dieta è ricca di zuccheri

I due terzi delle infezioni ospedaliere provocate da Clostridium difficile sarebbero da attribuire proprio a questa nuova specie, in grado di eludere le difese dell’ospite e di provocare di conseguenza effetti più gravi soprattutto nei pazienti anziani. Per capire in che modo l’evoluzione abbia nel tempo reso questo batterio sempre più insidioso, i ricercatori hanno raccolto e coltivato in laboratorio 906 ceppi del microrganismo, prelevandoli dall’uomo, nell’ambiente e da diversi animali (cani, cavalli, maiali). Sequenziando il loro Dna, è stato possibile osservare il doppio binario che sta guidando il cambiamento della specie: in atto ormai da tempo. Dall’analisi genetica, la più ampia mai realizzata in questo ambito, è emerso che una particolare linea batterica è responsabile delle infezioni più complesse, rilevate nel 70 per cento dei contagi avvenuti all’interno di strutture nosocomiali. Tra gli aspetti più significativi, i ricercatori sottolineano la capacità sviluppata da questo ceppo di colonizzare meglio l’intestino se l’ospite consuma molti alimenti ricchi di zuccheri: come quella che ha ormai preso piede in tutti i Paesi occidentali . Un aspetto, quest’ultimo, che sottolinea come la dieta giochi un ruolo cruciale anche nel prevenire le infezioni. E che correggerla è con ogni probabilità un altro passo da compiere, oltre al potenziamento della ricerca per sviluppare nuove molecole in grado di annientare i batteri resistenti .

Il trapianto fecale per i casi più difficili

L’evoluzione, secondo gli esperti, è iniziata con ogni probabilità a partire dal sedicesimo secolo: negli stessi anni in cui nel mondo nascevano i primi ospedali. Da quel momento in avanti Clostridium difficile, che si trova nell’apparato digerente di una persona su 30 ma nella maggior parte dei casi è tenuto sotto controllo dall’equilibrio che si genera nel microbiota intestinale, ha iniziato a trasformarsi in un batterio sempre più temuto. A renderlo maggiormente aggressivo spesso è proprio l’utilizzo di antibiotici, che come effetto collaterale fa saltare il delicato equilibrio presente all’interno della flora. Il passo successivo è rappresentato dalla formazione delle spore, attraverso le quali il batterio si diffonde e rimane a lungo resistente nell’ambiente e sulle superfici. Ecco perché agire sulla composizione del microbiota sta diventando l’ultima soluzione per i casi più complessi.

«Oltre il 90 per centro dei pazienti trattati con il trapianto di microbiota intestinale da donatore sano ha risolto l’infezione, senza registrare reazioni avverse significative», commenta Giovanni Cammarota, gastroenterologo del policlinico Gemelli di Roma. «La procedura si basa sulla reintroduzione della normale flora microbica intestinale, in modo da neutralizzare e contrastare il Clostridium difficile».

La procedura, però, va effettuata in centri specializzati. Gli esperti non escludono che possa avere un ruolo pure nella gestione terapeutica di altre malattie associate con l’alterazione della flora batterica intestinale: quali quelle infiammatorie intestinali, la sindrome del colon irritabile e alcuni disturbi metabolici o addirittura neurologici».

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